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Una difesa dei 100 (contro il vero bullismo filosofico)

Questo breve testo costituisce una risposta informale a un articolo di Luca Illetterati uscito su Le parole e le cose. Il titolo fa invece riferimento a un altro articolo, uscito su Carmilla online, in cui si accusano impropriamente i firmatari di "bullismo filosofico". Inutile mascherare il fatto che il bullismo sia ben altro (per esempio la monopolizzazione dell'attenzione verso la solita filosofia, che ormai costituisce totem della cultura accademica italiana di stampo umanista). 

*

La lettera firmata dai cento filosofi e uscita qualche giorno fa su «Il fatto quotidiano» contro le posizioni di Giorgio Agamben (e di chi, di conseguenza, ha condiviso in questo periodo proprio tali tesi) in tema Green Pass, già fa parlare di sé. In un recente commento firmato da Luca Illetterati su «Le parole e le cose» si fornisce una visione critica, seppure moderata nei toni, di tale appello, quasi proponendo una terza via tra le posizioni di Agamben e le posizioni dei firmatari (ma chiaramente propendendo più per una lettura agambeniana del tema). In un primo momento si lascia che faccia strada il dubbio che questi filosofi siano provvisti di occhiali non solo tanto deformati quanto quelli di Agamben, ma persino “più dozzinali”. Accanto a questo, nella parte introduttiva del testo, si fa riferimento diretto a un articolo uscito nella stessa rivista online, a firma del filosofo della scienza Giovanni Boniolo, in cui si tenta di inquadrare lo stato attuale dei filosofi italiani nel panorama internazionale. E qui, che lo si voglia o meno, purtroppo Agamben sarà anche molto famoso (il più famoso) in giro per il mondo, ma si tratta di comprendere se tale fame sia distribuita all’interno della comunità scientifica o fuori di essa. A tal proposito, oltre ai numeri eloquenti dell’h-index e delle citazioni nella Stanford Encyclopedia of Philosophy (SEP), mi sembra interessante rimandare a una lettera che uscì nel maggio del 1992 sul «The Times», firmata da vari filosofi analitici, tra cui David Armstrong, Willard Van Orman Quine e Peter Simons. Questa lettera era diretta all’Università di Cambridge che in quell’anno aveva scelto di conferire la laurea honoris causa a Jaques Derrida. Nella lettera c’era scritto:

Agli occhi dei filosofi, e certamente tra coloro che lavorano nei principali dipartimenti di filosofia di tutto il mondo, l'opera di M. Derrida non soddisfa gli standard accettati di chiarezza e rigore. […]

I voluminosi scritti di M. Derrida, a nostro avviso, estendono le normali forme di erudizione accademica al di là del riconoscimento. Soprattutto - come ogni lettore può facilmente stabilire da solo (e a questo scopo va bene qualsiasi pagina) - le sue opere impiegano uno stile di scrittura che sfida la comprensione.

Molti sono stati disposti a dare a Derrida il beneficio del dubbio, insistendo sul fatto che un linguaggio di tale profondità e difficoltà di interpretazione deve nascondere pensieri davvero profondi e sottili.

Quando si fa lo sforzo di penetrarlo, tuttavia, diventa chiaro, almeno per noi, che, laddove si fanno affermazioni coerenti, queste sono false o banali.

Spesso e volentieri, la popolarità non corrisponde all’autorevolezza. Di qui la prima obiezione all’idea che la fama di Agamben corrisponda a una sua qualità specifica nella riflessione su questi temi. In particolar modo, meditare e giudicare (ed eventualmente criticare) certi dispositivi e provvedimenti a cavallo tra sanità e politica, a cavallo tra questioni di natura scientifica e non, richiede più di un modello astratto, ormai vecchio di quasi sessant’anni (almeno a volerlo far risalire a Storia della follia nell’età classica, 1961), applicato indistintamente a ogni evento e ogni crisi attraversata in questa epoca. Richiede, cioè, competenze specifiche. Tali competenze non possono prescindere da ciò che i filosofi della lettera di Cambridge sintetizzano, in due parole, con “chiarezza e rigore”. La chiarezza, forse più che una qualità del metodo un dovere deontologico, può anche essere sufficiente se si leggono gli ultimi interventi di Agamben (o Cacciari), sicuramente meno oscuri dei libri pubblicati in questi anni. Ma il rigore sembra mancare almeno su due piani. Il primo di questi riguarda l’aspetto logico del ragionamento, pieno zeppo di fallacie ben individuate proprio da Giovanni Boniolo in un suo articolo su «Scienza in rete». Il secondo riguarda invece l’aspetto più propriamente storico di ciò che sta accadendo. La nostra epoca merita necessariamente un lavoro più serio sul piano storiografico di quanto non ci sia stato insegnato da Foucault attraverso la sua archeologia filosofica; e inoltre il nostro tempo richiede un armamentario filosofico-scientifico che vada ben oltre il paradigma della medicina tanto denunciato da Ivan Illich. Tutto questo sembra mancare in Agamben (che in varie occasioni, come qui) sfida la pazienza dei filosofi della scienza di professione, citando ancora una volta l’unico filosofo pop su questi temi, dimenticando gli altri, Kuhn. Fine della piccola-grande premessa. La qualità credo si debba basare sulle competenze degli autori, il loro livello e la qualità delle loro argomentazioni, senza tenere a mente né la popolarità, né la suggestività di alcune tesi (se non sono correttamente argomentate). I filosofi che hanno firmato questo appello, a differenza di Agamben, filosofi della matematica (come Matteo Plebani), filosofi della scienza (come Andrea Iacona), filosofi delle scienze cognitive e AI (come Francesco Bianchini) e filosofi del linguaggio (come Sebastiano Moruzzi che, insieme a Filippo Ferrari, ha scritto di recente un saggio molto interessante su post-verità e “deformazioni epistemiche”, per così dire, uscito in Open Access per la casa editrice dell’Università di Bologna; Verità e post-verità, 1088press 2020).

Passiamo ora al corpo del commento di Illetterati. Partiamo dalla questione della sperimentazione o meno del vaccino. Intanto il vaccino non è più sperimentale, almeno se con sperimentale si intende qualcosa che non ha ancora superato le fasi necessarie di test per poter essere messo in commercio. Questo viene riconosciuto anche dall’autore che però fa notare come i vaccini siano segnati dall’Agenzia Europea del farmaco con la sigla CMA (Conditional Marketing Authorization), e che dunque le cose siano andate diversamente dagli standard e dalla routine e che questo potrebbe indicare proprio l’eccezionalità della diffusione dei vaccini. Tuttavia la sigla CMA non sta a indicare nulla che anche lontanamente suggerisca che si sia ancora in fase di sperimentazione (basti vedere cosa dice l'EMA qui). Inoltre, la sperimentazione dei vaccini a mRNA è stata molto rapida grazie all’enorme partecipazione di volontari, e i risultati e i vincoli per questi vaccini sono pressoché impossibili da paragonare a quelli di altri vaccini e medicinali passati che hanno subito controlli molto più blandi. Questo per dire che, rispetto a sperimentazioni precedenti, quella sul vaccino anti-covid è tutt’altro che sommaria e semmai è eccezionale solo in senso positivo (vista l‘efficacia).

Il secondo elemento critico rilevato da Illetterati riguarda forse la fin troppo ideologica posizione dei firmatari contro l’idea che si viva in un momento storico in cui il potere giustifica la propria esistenza attraverso l’evenienza di stati emergenziali (o, alcuni direbbero, di eccezione). Ora, è possibile rifiutare tale critica semplicemente facendo notare come sia la posizione di Agamben a essere ideologica, ovvero partigiana. E in particolare partigiana verso certe teorie filosofico-politiche stantie, vintage, antiquate (chiaramente dimostrare questo non equivale a confutare quanto sostenuto da Illetterati, ma la strategia è comunque ragionevole; infatti, se la posizione ideologica dei cento è ideologica, anche la posizione di Agamben lo é, e questo cancella di per sé la critica, dal momento che si guarderebbe la proverbiale pagliuzza nell'occhio dell'altro - o le corna dell'asino, ecc. - fornendo un argomento che in alcun modo restituirebbe dignità alla tesi di Agamben in contrapposizione a quella dei firmatari). Non è qui importante diagnosticare la malattia del potere che affligge il presente, ma è interessante notare come i metodi di controllo si siano sviluppati a tal punto che sembra difficile concepire l’entità potere come un organismo, o una forza, che si tiene in vita grazie agli stati di eccezione che è in grado di generare o inquadrare, in modo da sfruttarne la natura emergenziale per poter accrescere la propria natura. Ormai il potere si autoalimenta nella quotidianità in modo talmente normale e noioso da non dover richiedere grandi eventi, grandi crisi o altro. Bastano dei bancomat per tracciare i nostri spostamenti e valutare i nostri acquisti, bastano delle ricerche su Google (quell’enorme architettura che è possibile descrivere, mi diceva un amico matematico di recente, sulla teoria dei giochi – piegata al servizio delle dinamiche di mercato) per sapere cosa facciamo, cosa ci piace, chi voteremo. E basta vincolare i pagamenti, porre dei limiti, nascondere delle pagine, pubblicizzarne altre, per far sì che il potere cresca, si sviluppi, acquisti anche più capacità di obbligare. Non serve certo uno strumento arcaico come il green pass (arcaico perché tanto evidente, tanto palese, tanto banale anche). Poi i paragoni con l’Unione sovietica (o la Cina) lasciano il tempo che trovano chiaramente, ma questo fa parte della visione ideologica di Agamben. Infatti, Agamben per primo mostra di essere ideologicamente orientato, dove l’ideologia è la propria teoria filosofica e il proprio modo di fare filosofia. Il problema del metodo, come già sottolineato nella lettera del ’92 sul «The Times», rimane fondamentale. La lettura di Agamben di questi eventi, il paradigma dell’eccezionalità, era qualcosa che riguardava forse la prima metà (e gli anni Sessanta in aggiunta) del Novecento, ma rimane una spiegazione priva di appigli all’attuale, estremamente più complessa. Ed ecco che ritorna pure il problema della competenza. A ogni passo del ragionamento si vede come si intreccino sempre gli stessi errori di base, l’incompetenza generale nell’uso degli strumenti necessari per comprendere gli eventi della nostra società (la statistica, la logica, ecc.), la convinzione di poter ragionare con paradigmi vecchi di sessant’anni e passa, e la difficoltà nel portare avanti un discorso rigoroso quando si fa avanti la chiarezza (a differenza che nei libri) e dunque non si può mascherare con l’oscurità la propria fragilità argomentativa.

Il punto riguardo alla discriminazione mi sembra abbastanza assertivo e per nulla dimostrato. Illetterati conclude dicendo che “Dire ad Agamben, come dicono i tanti filosofi che hanno firmato la lettera, che non è vero che c’è discriminazione, significa, di fatto, dare ragione ad Agamben, fornire cioè argomenti ancora più forti alla sua narrazione.” Il ché non ha di per sé senso, mi sembra, dal momento che dire ad Agamben che non c’è discriminazione non è negare un’ovvietà, ma precisare qualcosa che appare ovvio solo se si salta il passaggio necessario del ragionamento. E a questo proposito proprio l’esempio della patente mi sembra calzante, dal momento che si tratta di una metafora chiarissima e semplice. La patente infatti, proprio con il green pass, a un livello il più trattabile possibile sul piano logico, non è altro che un dispositivo che garantisce il soddisfacimento di certe condizioni affinché si massimizzi la sicurezza di una comunità in un dato contesto e si tenga al minimo possibile la probabilità di un rischio. Il green pass non è altro che un modo per garantire una ripartenza attraverso un metodo che garantisce che il rischio di infezione non aumenti più di quanto non sia possibile ridurre con la vaccinazione. E questo serve semplicemente per incentivare la vaccinazione che, per ritornare all’esempio della macchina, funziona quando a farla siamo tutti (esattamente come non basta che io non beva per essere sicuro di aver ridotto al minimo il rischio di schiantarmi con l’auto, ma sarebbe necessario che anche gli altri non avessero bevuto prima di prendere la macchina). Quindi, in assenza di argomentazione a favore dell’idea che esista una discriminazione, e quindi in assenza di qualcosa da confutare, tanto vale difendere direttamente la metafora della patente e spiegare perché non ci sia discriminazione. Per quel che riguarda invece il problema della violazione della libertà individuale, tanto vale rimandare alla discussione sul Principio di Mill del filosofo Peter Singer (in cui oltretutto si porta l’esempio della cintura di sicurezza, a dimostrazione di quanto frutti usare come paragone la guida).

Sull’ultima frase si può essere d’accordo o meno. Poniamo di essere d’accordo e che la filosofia non serva a indicare quali siano gli occhiali buoni, ma quali siano i limiti visivi di ogni occhiale. È chiaro che in questa occasione gli occhiali dei cento filosofi potranno anche avere i loro difetti (che nella lettera non hanno dimostrato), ma rimangono occhiali da vista ben graduati e senza graffi grossolani sulle lenti (i.e. errori di logica). Non si può dire lo stesso di quelli di Agamben, invece, che ricordano piuttosto i finti occhiali di carta che si ritagliavano da bambini, per sembrare più intelligenti. 

Riccardo Canaletti



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